Il santuario rupestre di San Michele alle Grottelle a Padula

Il santuario rupestre di S. Michele alle Grottelle, per l’ubicazione prossima a Cosilinum e per la vicinanza con una sorgente, è probabile che fosse già frequentato, in Età pagana, da genti che vi praticavano culti ctonii (ossia sotterranei), cui si sovrappose poi quello micaelico non appena la fede cristiana poté esprimersi liberamente alla luce del sole (ossia in Età Costantiniana). A corroborare tale ipotesi è la forte similitudine intercorrente tra l’Arcangelo ed il dio pagano Attis, signore delle forze sotterranee, delle acque e dei terremoti ed accostato nel mito alla gran Madre degli dèi Cibele. In Occidente tutto comincia con la sua apparizione in una grotta sul Monte Gargano al vescovo di Siponto (oggi Manfredonia) S. Lorenzo di Maiorano, l’8 maggio del 490, giorno ancor oggi celebrato presso numerose comunità cristiane (come la nostra Sala Consilina). A questa seguiranno altre apparizioni (almeno 6 o forse 5 storicamente documentabili), sempre nello stesso luogo, che in seguito sarebbe divenuto quel magnifico santuario, a Monte S. Angelo, ancor oggi meta di tanti pellegrinaggi. Il celeste principe appare dunque in una grotta su di un monte, e così accadrà anche fuori dell’Italia, come ben dimostra l’apparizione del 708 a Sant’Oberto, vescovo di Avranches, sul Mont-Tombe (poi ribattezzato Mont-Saint-Michel) in Normandia, quasi a suggellare che è lì, a metà strada tra cielo e terra, in un non-luogo sospeso fin dall’antichità tra mondo dei vivi e mondo dei morti, è lì che la luce della fede ancor più risplende sull’oscura oppressione del Maligno, è lì che l’uomo si purifica e risorge alla morte del peccato. Questo il significato catartico del culto sotterraneo in ambito cristiano, sicuramente disceso da quello pagano di ritornare nel grembo della madre terra, per risorgere a nuova vita o semplicemente per trovarvi il sostegno necessario a vincere le paure e le ansie vissute dall’uomo in superficie. Ed è qui la somiglianza più impressionante tra il dio pagano Attis e l’arcangelo Michele, entrambi strumenti per l’uomo del passaggio dalla morte alla vita e viceversa, simbolo di risurrezione e d’immortalità: il primo, in quanto figlio della madre terra e dio della vegetazione, che, come tale, muore e risorge, rinnovandosi continuamente; il secondo quale “psicopompo”, che cioè accompagna le anime degli uomini oltre la morte, pesandone le virtù su una bilancia (come ben si vede nell’iconografia corrente). Tutti e due sono sempre raffigurati in un’età di eterna giovinezza, quasi efebica ed asessuata, ad indicare che sono al di là del tempo e della tipizzazione sessuale (addirittura Attis si configura come un ermafrodito, privo e nel contempo dotato di entrambi gli organi sessuali). E che nella nostra antica città lucana la divinità ctonia Attis fosse conosciuta e venerata lo dimostra la ben nota epigrafe murata nella base del gigantesco torchio delle cantine della Certosa e certamente qui condotta da Cosilinum. La sovrapposizione di un culto cristiano ad uno pagano, del resto, è una costante, utile a renderne in molti casi meno traumatico il passaggio.
Circa la consacrazione della grotta di Padula all’Arcangelo, si è detto che è verosimile pensare agli anni dell’Impero di Costantino (IV sec. a.C.) e tale ipotesi è suffragata da alcune osservazioni che si possono fare circa l’abitudine, ancor oggi rimasta, di festeggiarvi S. Michele in giugno (anticamente la 1ª o la 2ª domenica, poi la 3ª). Perché? Una spiegazione può trovarsi nel calendario liturgico bizantino, che fissava al 9 giugno una ricorrenza solenne, ossia il ricordo del giorno in cui l’imperatore Costantino aveva dedicato a S. Michele un santuario presso Costantinopoli (il Sosthènion). Le nostre terre rimangono a lungo sotto il dominio di Bisanzio proprio dopo Costantino e l’influsso greco perdurerà anche dopo la calata Longobarda, come rivela il culto di S. Nicola (detto de’ Dom(i)nis) impiantato nell’insediamento medievale. Il fatto di trovare a Padula il culto di S. Michele con quei connotati bizantini, poi scomparsi dopo che i Longobardi lo rivestono di molti caratteri nordici accentuandone lo spirito guerriero, è – a mio modesto avviso – la prova più evidente dell’antichità della consacrazione micaelica della grotta.
Passando infine alla descrizione del santuario, esso consta di un’articolata cavità rocciosa delimitata, proprio come sul Gargano, da una parete in muratura che scende a strapiombo lungo il fianco montuoso del colle e che ospita due moderne finestre. Prima di accedere alla grotta, un cancello immette in uno spazio terrazzato, dove troviamo nella concavità rocciosa a sinistra cospicui resti di affreschi databili alla fine del secolo XIV (scene che raffigurano la Vergine, secondo un tipo iconografico precedente alla conquista turca di Costantinopoli del 1453). In una sorta di inquadramento prospettico ricavato nella rientranza rocciosa, riconosciamo un’Incoronazione della Vergine sul fianco sinistro, una Madonna con Bambino al centro e una Dormitio Mariae sulla destra. Il culto della Vergine associato a quello di S. Michele nel medesimo luogo trova ancora una volta corrispondenza con il passato pagano, che associava sempre Attis alla Madre Terra Cibele. Sul lato destro del terrazzo è stata invece realizzata, in anni recentissimi, una casa del pellegrino sormontata da un piccolo campanile a ventaglio. Nel sacro speco, subito notiamo sulla sinistra la tomba marmorea dell’abate Bernardino Brancaccio, effigiato nel sovrastante medaglione e che un epitaffio del 1538 ricorda essersi distinto per severità di costumi e profondo spirito religioso presso S. Nicola al Torone (monastero oggi diruto). Nella grotta, però, l’importanza maggiore la riveste il ciclo pittorico di Santiago de Compostela, ospitato in una ben conservata edicola votiva, incastonata in una rientranza della grotta a mo’ di primigenio altare e purtroppo oggi scarsamente visibile data la presenza ingombrante di un altare novecentesco, che altera non poco l’armonia interna degli spazi. Gli esperti ritengono tali affreschi anteriori a quelli esterni, rimontando alla prima metà del ‘300: essi raffigurano principalmente scene della vita di S. Giacomo apostolo, in ciò inserendosi appieno nella temperie medievale, che a partire dal ‘200 faceva confluire al santuario galiziano frotte di pellegrini da tutta Europa e che, tra l’altro, instaurava un forte legame proprio tra S. Michele e S. Giacomo, i cui principali santuari (rispettivamente sul Gargano e in Spagna), collocati agli antipodi dell’Europa di allora, sembravano quasi volerla difendere da est e da ovest. L’edicola reca, nella parete di fondo, l’immagine del Cristo, raffigurato frontalmente e in piedi, mentre nei due prospetti laterali troviamo due santi in posizione simmetrica e sormontati dalla scena dell’Annunciazione. Il S. Lorenzo, riconoscibile sulla destra, rimanda subito alla Certosa e a quel legame tra cenobio e comunità civile mai disatteso.
Trasferitisi progressivamente sul colle al di qua del Fabbricato a partire dal V-VI sec., e poi definitivamente nel IX, i nostri progenitori portarono con sé anche il culto dell’Arcangelo, cui dedicarono la Chiesa Matrice, che ancor oggi svetta in cima al paese. Il legame, però, con l’antica città Enotria, poi Lucana e quindi Romana di Cosilinum, non si interruppe allora, come testimonia la prima chiesa di Padula (S. Maria della Civita) ancora visibile alle spalle di S. Angelo, né sembra interrompersi oggi. Celebrare S. Michele nel suo santuario rupestre delle Grottelle, celebrarlo per di più in giugno e portarlo in processione lungo l’antico sentiero conducente alla Civita, come avviene ogni anno, vuol dire per i Padulesi tornare alle proprie origini, riscoprirsi nel passato e riconoscersi nel presente in un momento di comune aggregazione, lasciare che quella stessa Madre Terra, che un tempo generò i padri, ne abbracci ora i figli, aprendo loro il suo grembo.

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